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Il Taccuino dei predatori, megalitich team research

…teorie, e studi sulle origini della nostra terra, ..siate curiosi.. ( di Ilenia Lungo)

giugno 23, 2014 paolo ruggeri Lascia un commento

LE MURA MEGALITICHE DEL LAZIO:

LA STRAORDINARIA TESTIMONIANZA DI UNA TERRA SCOMPARSA,

DI UN’ANTICA CIVILTÀ E DEL “PRIMATO ITALICO”. . .

 SECONDO GLI STUDI DI ANGELO MAZZOLDI

L’Italia, il paese della cultura, della storia e dell’archeologia è, in molti casi, ricca di testimonianzeprovenienti da un passato mitico e leggendario che costituiscono un’evidenza storica eccezionale. Ne è un esempio, il territorio del Lazio e delle regioni limitrofe, caratterizzato da imponenti vestigia di circuiti megalitici in opera poligonale, taluni più integri talaltri più esigui, innalzati sulle sommità di colline o rilievi montuosi. Scriveva così, a tal proposito, la studiosa americana Louisa Caroline Tuthill nella sua “History of Architecture” del 1848: “In un’età precedente a quella dei Romani, la fiera terra d’Italia era abitata da popoli che hanno lasciato monumenti indistruttibili a testimonianza della loro storia. Quelle meravigliose e precoci città d’Italia, che sono state definite ciclopiche, sono fittamente sparse in molte regioni e spesso appollaiate come nidi d’aquila sulle creste delle montagne, ad una tale altitudine che stupisce e disorienta il viaggiatore che oggi le visita esortandolo a chiedersi cosa abbia spinto gli uomini ad edificare in luoghi tanto inaccessibili e a radicarsi all’interno di tali stupende fortificazioni”.

Il periodo italico pre-romano è un periodo fondamentale della nostra storia e volendo osservare con attenzione possiamo ritrovare numerose e diffuse tracce evidenti. E’ indispensabile approfondire correttamente questo remoto passato, per comprendere la missione degli antichi Italici, di cui Roma sostenne in primis l’onere e l’onore [1]. Testimonianze straordinarie dunque, non studiate in maniera approfondita, frettolosamente catalogate in periodi storici “poco consoni” e di conseguenza non valorizzate adeguatamente. Nelle tesi “ufficiali” a noi contemporanee, riguardo questi imponenti resti archeologici, emergono lacune e discrepanze a cui il mondo accademico non può o molto spesso non vuole dare risposta. Tutto ciò non è una critica all’archeologia ufficiale ed ai ricercatori accademici che svolgono diligentemente il loro lavoro, secondo “dovere”, ma è più che altro un modo per portare all’attenzione determinati argomenti e questioni assolutamente da rivedere e riesaminare, con l’auspicio che prima o poi si apra un ampio e diretto dibattito sulla questione, per un’idonea rivalutazione di tale periodo, con lo scopo di indagare e raccogliere tutto il materiale possibile, anche quello non immediatamente pertinente. E’ quello che tenteremo di fare, per mezzo dei nostri articoli in questo sito, ponendo all’attenzione del lettore, scritti, ipotesi di studiosi passati e contemporanei (noti e meno noti), luoghi e siti archeologici, a dimostrazione di uno spaccato di storia spesso dimenticato o peggio ancora “ignorato”.

Per identificare un quadro storico, potenzialmente plausibile, in cui collocare queste mura megalitiche è necessario rendere noto (come già diversi studiosi contemporanei stanno facendo) che è esistita una cospicua, ma poco conosciuta, schiera di autori [2] che, a partire dal ‘700 fino alla prima metà del ‘900, ha ampiamente affrontato ed esaminato la questione di un’antica e remota civiltà, artefice di queste testimonianze archeologiche lasciateci in eredità; civiltà a cui questi autori dettero il nome di “Saturnia Tellus”, “Terra di Saturno” o anche “Terra dell’abbondanza”, rifacendosi alla mitica Età dell’Oro di Saturno. Si dedicarono, quindi, alla riscoperta dell’identità primordiale dell’Italia, raccogliendo ed elaborando i testi degli autori latini e greci che trattarono l’argomento in maniera diretta o sotto forma di miti e leggende, ricostruendo la storia, la religione, le arti, dei primi e più antichi popoli italici e soprattutto affrontandone la precedenza storica rispetto a quelli del bacino del Mediterraneo. Questi autori, in successione, proseguirono, svilupparono e modificarono l’opera dei precedenti, pur divergendo in alcuni punti, ad esempio nell’impostazione cronologica, nell’individuazione di luoghi e nell’interpretazione dei miti, ma è sempre possibile ritrovare all’interno dei loro lavori una “matrice comune”, dedita a fare chiarezza sulla presunta esistenza di un antico centro e popolo italico dal passato glorioso. Alcuni furono gli eredi dei loro predecessori, atri si incontrarono e confrontarono tra loro, molti pare siano stati incoraggiati ed ispirati da “centri di conoscenza” non solo di tipo intellettuale [3]. Il loro lavoro è a testimonianza di un mondo arcaico, una terra scomparsa a causa di grandi cataclismi: la Tirrenide. Geograficamente diversa da quella attuale, era costituita dalla penisola italiana, unita alle isole maggiori e minori fino a Malta e Gozo. Ed è proprio dalla Tirrenide che giungono, tramite questi autori, le tracce di una civiltà antica e della loro “prisca sapienza italica” a volte presenti nei miti e a volte fissate nella pietra dei più arcaici monumenti del Lazio.

ANGELO MAZZOLDI E LA SUA OPERA “DELLE ORIGINI ITALICHE”

Un’opera di straordinario interesse e che maggiormente fra tutte ha funto da base per molti degli autori successivi, fu quella dell’erudito monteclarense Angelo Mazzoldi [4]. Dai primi autori del ‘700, con il passare dei decenni, le ricerche furono approfondite raggiungendo la prima sistematizzazione in maniera compiuta con il suo lavoro, nella prima metà del XIX secolo; precisamente nel 1840, a Milano, lo studioso pubblicò in due volumi l’opera dal titolo “Delle Origini Italiche e della diffusione dell’incivilimento italiano all’Egitto, alla Fenicia, alla Grecia e a tutte le nazioni asiatiche poste sul Mediterraneo”, basandosi sulle notizie pervenute attraverso i miti, la poesia epica e gli altri scritti degli antichi, privilegiando, quindi, le fonti tradizionali e le testimonianze dirette, le quali secondo l’autore avevano maggior valore rispetto agli scritti dei suoi contemporanei:“Fisso nel mio proposito di pigliare per guida i soli antichi, e non leggere i moderni se non quando la successione de’ fatti fosse già chiarita ed ordinata, onde non essere traviato da alcuna delle tante contraddittorie ipotesi su cui s’aggirarono in fino ad ora tutte le ricerche”.

La prima parte dell’opera la dedicò alla critica delle ipotesi antiche e moderne circa le origini della civiltà italica, egli asseriva infatti che l’opinione degli studiosi, di considerare l’Egitto e la Grecia come fulcro della civiltà, fosse in realtà errata, in quanto agli antichi Italici andava conferito tale primato: “La Grecia che tutto aveva ricevuto dagli Italiani, portò la vanità e la petulanza al grado di voler far credere allo alloppiato mondo che da lei invece erano venuti all’Italia tutti i principi della civiltà. (…) Tra il clamore de’ vantori Greci e la greco-mania degl’Italiani, ogni memoria dell’antica nazionalità e grandezza veniva spenta. Chi studiasse con ordine cronologico la letteratura greca, potrebbe da essa avere certezza di questo fatto. Nei libri che precedono l’età di Erodoto, noi troviamo tracce delle nostre antiche memorie, disfigurate e travisate è vero dalla mischianza dei due popoli, ma però senza evidente proposito di falsarle. Dopo di Erodoto e di Tucidide, che furono forse degli ultimi che scrissero le tradizioni antiche quali correvano per la Grecia, noi troviamo quasi sempre una generale foga di volere, anche a rischio delle più enormi contraddizioni, riferir a quel solo paese tutte le antiche memorie, e costituirlo capo di tutte le origini sociali”. La seconda parte, sviluppata in tre fasi, intendeva dimostrare, esistenza, origini e diffusione di questo antico impero marittimo, affermando che l’Italia in tempi remoti fu abitata da un antichissimo e civilissimo popolo autoctono: “Tutti gli scrittori che parlano degli antichi popoli d’Italia, fecero menzione di un comune ceppo di cui si conservò memoria nella denominazione di Aborigeni. Gli stessi greci che avevano fatto proposito di arrogare al paese loro tutte le nostre tradizioni, dovettero confessare avere avuto la sede loro in Italia popoli civili che non vi erano venuti da alcun’altra parte”. Attraverso gli scritti, da cui l’autore attinse, vengono esplicate tante coincidenze che evidenziano, la dipendenza delle principali civiltà mediterranee dall’antichissimo centro sacro Italico.La Tirrenide fu abitata da popoli autoctoni di alto livello di civiltà da identificare, secondo il Mazzoldi, con i Tirreni da lui chiamati spesso Atalantici, Italantici o Italici (ma da tenere distinti dai successivi Etruschi considerati un ramo discendente di essi) e ai quali gli scrittori antichi assegnarono nel tempo diverse denominazioni ritenute dall’autore sinonimi per indicare popoli dello stesso ceppo: “Si sono discorse tutte quelle notizie che collegate e confrontate persuadono l’animo nostro col dimostrargli che le denominazioni di Uranidi, Oceaniti, Titani, Atlantidi, Ciclopi, Pelasghi, non possono appartenere e non appartengono se non a una gente unica, di cui si volle sotto quelle misteriose parole, occultare il nome, e che una tal gente così variamente denominata non potea essere se non l’italiana.”A queste antiche genti Italiche, secondo la ricostruzione che ne delineò il Mazzoldi nei suoi volumi, era da attribuire il primato in molti campi e aspetti della vita. Lo Stato era retto da un monarca e da un consiglio di aristocratici, l’architettura molto avanzata, tanto da consentire le costruzioni che noi chiamiamo megalitiche e che l’autore chiamava “saturnie” o “ciclopiche”: “Ben dovevano essere le arti italiane sorte ad altissime idee di grandezza se esse si trovavano sufficienti alla erezione di quelle smisurate moli che durano ancora dopo tanti secoli, e dureranno finché non sarà sobbalzato o seppellito il suolo su cui sorgono, che fanno tuttodì stupire i nostri artisti, e rendono quasi credibile la favola che le disse opera di un popolo di giganti. E coll’architettura dovevano aver fatto giganteschi progressi le scienze e massime la meccanica, perché certamente non si sarebbero ne tagliate, ne innalzate e poste a luogo senza l’aiuto delle macchine quelle enormi pareti composte di parallelepipedi, in cui per lo più ogni lato uguaglia o supera l’altezza d’un uomo, e de’ quali, al dir di Pausania, il minore non avrebbe potuto smuoversi con un paio di muli.” Ma il grado più alto era raggiunto in campo spirituale, infatti l’autore attribuì loro una religione purissima: “questi antichissimi uomini adoravano un’unica divinità ossia un’arcana causa dell’universo, ne raffiguravano un simbolo ed una immagine nel sole”. Con il tempo abbandonata, si mantenne incorrotta solo all’interno di ristrette cerchie sacerdotali.Esperti ed abili navigatori, anche questa loro facoltà raggiunse alti livelli di perfezione, in un periodo in cui le altre nazioni del Mediterraneo ancora non possedevano imbarcazioni capaci di attraversare i mari, dando origine così ad un vasto impero marittimo.

 Fondatori di questa primeva civiltà furono Saturno e Giano, divinità  dell’Italia antica, a cui avrebbero accennato, secondo l’autore, anche le fonti elleniche (basandosi su notizie riportate dallo storico greco Dionigi d’Alicarnasso): “l’Italia per loro giudizio – degli storici greci –  era la migliore delle terre del mondo, e quella in cui con maggiore ragione potesse locarsi il regno degli Iddii, il nascimento dei mortali e quell’aurea età di cui i popoli lamentavano la tramutazione”. Saturno e Giano offrirono alle antiche genti della penisola italica i primi rudimenti della civiltà e fondarono diversi centri (tra cui le cosiddette città saturnie del Lazio), dando inizio a quel periodo aureo caratterizzato da un benessere e un’abbondanza conosciuto come“Età dell’Oro”: “Tra le favole da cui furono abbellite o disfigurate tutte le antiche memorie storiche, noi troviamo radicata nelle credenze popolari degli Itali antichi, quella (…) che Saturno e Giano gli avessero istituiti ad una vita non solo civile ma felice, introducendo non già la comunione delle cose, come scrisse Trogo Pompeo, ma bensì la eguaglianza dei diritti; onde i popoli conoscenti del beneficio denominarono dal primo l’antichissima città di Saturnia, e dal secondo quella di Gianicolo, di cui, se crediamo a Virgilio, appena restavano le rovine al tempo della guerra di Troia”.

Sembrerebbe che ancora prima dell’arrivo di Saturno nella terra italica, avrebbe regnato Camese [5] che rarissime citazioni affermano essere anche precedente a Giano, a cui avrebbe donato il territorio oggi del Lazio, secondo la testimonianza di Macrobio (Saturnalia I, 7 19): “Giano ottenne di regnare su questa terra che ora è chiamata Italia e, come scrive Igino seguendo Protarco di Tralli, regnò condividendo il potere con Camese, anch’egli indigeno”. Camese sarebbe stato il re della cosiddetta Metropoli (la capitale dell’Italia antica) al tempo della Tirrenide, di cui ha parlato in seguito Camillo Ravioli, quindi prima della catastrofe italica. Mentre successivamente ad essa si situerebbe il tempo della Saturnia edificata da Saturno, donatogli da Giano (il dio bifronte), rappresentato con due volti in quanto re del tempo passato e di quello futuro, sopravvissuto ai grandi cataclismi di acqua e di fuoco, come scrisse il Mazzoldi: “perché essendosi egli ritrovato innanzi alla catastrofe che divise e sommerse l’Italia e avuta piena e verissima cognizione di ciò che era stato avanti a quella, vide ancora la restaurazione degli uomini e la successiva novella dei fondati imperii”.

LA “CATASTROFE ITALICA”

Gli eventi che distrussero la Tirrenide e che ne determinarono importanti cambiamenti, conferendole la forma attuale, furono: un cataclisma d’acqua ovvero un rapido innalzamento del livello del mare causato dallo scioglimento dei ghiacciai ed un conseguente cataclisma di fuoco, dovuto all’azione dei vulcani italici, fattori che convinsero alcuni di questi autori, tra cui il Mazzoldi, di una possibile identificazione tra la fine della Tirrenide e quella dell’ipotetica Atlantide [6]. “Si trovò nelle più antiche scritture della gentilità (…) che in antico uno spaventoso sovvertimento aveva posto sottosopra tutta l’Italia: staccate della Calabria la Sicilia, e l’isole Eolie e subissato tutto il paese intermedio” [7], eventoche il Mazzoldi fece risalire: “all’anno innanzi Gesù Cristo 1986, cioè anni settecento settantasette prima della caduta di Troia; e noi crediamo per buone ragioni che alla catastrofe dell’Italia e alla dispersione de’ suoi popoli oltre mare, non possa assegnarsi epoca più vera di questa” [8].

L’estensione della penisola italiana un tempo (durante l’ultimo periodo glaciale, circa 22.000 anni or sono) era maggiore di quella dell’attuale: sulla base delle ricerche riportate nei Quaderni della Società Geologica Italiana (2007, 2), si nota come ad oriente essa occupava buona parte dell’Adriatico, ad occidente era tutt’uno con l’isola d’Elba, la Corsica e la Sardegna, mentre a sud giungeva a comprendere la Sicilia, Malta e Gozo; sul versante tirrenico le spiagge formavano un’ampia pianura dato che il livello del Mar Tirreno era circa 100-120 metri più basso dell’attuale. Ciò, come scrive il medico ed umanista Paolo Galiano nel suo “Roma prima di Roma”, “dimostra che le ipotesi degli autori concernenti la Tirrenide, cioè un’Italia di forma profondamente diversa dall’attuale, siano sostanzialmente esatte” e prosegue: “le modifiche del Mar Tirreno sarebbero avvenute in tre fasi successive corrispondenti a piccole alternanze (migliaia di anni) di glaciazione e deglaciazione. (…) Fu la terza deglaciazione ad avere un effetto più disastroso, perché a seguito della coincidenza di fattori diversi essa fu molto più veloce delle precedenti: circa nel 6000 a.C. la calotta di ghiaccio della Laurentide, che copriva quasi un terzo del Canada, sollevata dal basso dalle acque del mare che penetravano sotto il ghiacciaio dallo stretto di Hudson, collassò nell’Atlantico innalzando il livello degli oceani da 5 a 25 metri (a seconda delle regioni della Terra) nel giro di poche decine di anni se non addirittura di una sola generazione. In questo modo il livello medio del mare passò da -20 metri a poco meno dell’attuale, inondando tutte le zone pianeggianti in precedenza emerse. L’improvvisa redistribuzione dei pesi fu accompagnata da fenomeni sismici ancora più disastrosi dei precedenti per la rapidità dell’evento”. Ne conseguì l’eruzione improvvisa della catena vulcanica che attraversava l’Italia dalla Toscana al Lazio, alla Campania fino alla Sicilia che eruttò milioni di metri cubi di lava e di ceneri scatenando terremoti e maremoti e inabissando le regioni costiere, rendendole da popolate a inabitabili. A questa catena vulcanica si unì l’eruzione di vulcani ora sommersi (le cui cime si trovano attualmente a 600–700 metri sotto il livello del mare) posti nel Tirreno tra il golfo di Napoli e le isole Lipari (dei quali uno, il Marsili, è tutt’ora attivo) [9]. In conclusione è possibile affermare che “la moderna geologia convalida ampiamente i racconti degli autori antichi che hanno fornito la base a Mazzoldi ed ai suoi successori nella formazione di una storia coerente della civiltà “atalantica, italantica o italica” come essi la denominano e del suo sviluppo fino alla nascita di Roma”.

LA MIGRAZIONE, L’INCIVILIMENTO E IL RITORNO ALLA “TERRA D’ORIGINE”

A seguito di questi eventi catastrofici [10],gli abitanti della Tirrenide furono costretti a fuggire via, come spiegò il Mazzoldi: “Allorché si parla di tramutamenti di popoli dall’un paese all’altro oltre mare parlasi necessariamente di terribili sovvertimenti terrestri, perché soltanto per questi i popoli si riducono ad abbandonare la propria terra”.Parte di essi si rifugiò sulle regioni appenniniche prendendo il nome di Aborigeni e parte invece si allontanò via mare per cercare terre ospitali, prendendo il nome di Pelasgi: “Sotto il nome dei Pelasghi noi troviamo menzionato in tutti gli scrittori dell’antica Grecia un popolo forestiero che, sbalzato dalle proprie sedi, erasi recato nell’Ellade offerendo ai selvaggi abitatori di quella contrada, oracoli, riti, lingua, lettere, arti, leggi, navigazioni, sapienza civile (…) la denominazione di Pelasghi non era la territoriale di questi Tesmofori, ma imposta arbitrariamente dagli ammirati e selvaggi greci (…) Con questa denominazione i Greci vollero indicare una colonia venuta dal Pelago, che è quanto dire dal grande mare (…) e noi non possiamo attribuire tale denominazione se non al Mediterraneo, giacchè i Greci non conoscevano altri mari. I Pelasgi esperti navigatori, perché già abitanti delle coste italiche, giunsero a Creta e in Egitto e da qui passarono in Grecia arrivando successivamente sulle coste della Turchia e nella Mezzaluna fertile, spingendosi fino all’Iran e all’India, secondo la ricostruzione dell’autore. Col passare dei secoli, si dispersero in piccole comunità su di un territorio molto vasto. Ridotti numericamente, furono in parte assorbiti dai popoli che avevano civilizzato e in parte sconfitti in guerre locali, ragion per cui chiesero indicazione all’Oracolo di Dodona (da loro stessi fondato), il cui responso [11] fu di ritornare in Terra Saturnia, come scrisse anche il Mazzoldi: “Ora questi profughi combattuti e consumati da una continua peregrinazione lungi dalle native sedi, veggendo omai scemare di dì in dì il loro numero dalle molte colonie lasciate qua e la per la Grecia, ebbero ricorso al loro oracolo, domandando come avrebbero finalmente avere quiete e prosperare in istabile sede; e l’oracolo non punto dimentico delle comuni origini, e bene conoscete che le sole consolazioni della patria avrebbero potuto quietare questo popolo incerto, rispondeva con questo responso che inciso con antichi caratteri in uno dei tripodi posti nel tempio di Giove, fu letto da Lucio Mamio” [12].

A questa migrazione verso l’oriente, sarebbe seguita, dunque, una fase di “ritorno alle origini”, una migrazione probabilmente compiutasi in differenti periodi, sia per mare che per terra e come ci dice Galiano: “La migrazione indoeuropea è stata una di esse, ma prima ancora altre migrazioni vi sarebbero state verso occidente e verso l’Italia, luogo di origine di questi popoli, tanto da formare stratificazioni di culture all’apparenza differenti ma in realtà aventi tutte la stessa matrice, culture le quali a loro volta si erano fuse con quelle autoctone dei paesi in cui questi popoli avevano per lungo tempo abitato, formando così un amalgama di etnie, tanto da rendere a volte, al ricercatore, ben difficoltosa o impossibile la distinzione di quanto appartenga alle culture autoctone o a quelle portate da popoli esterni”. Questo ritorno alla terra d’origine è stato erroneamente interpretato da alcuni autori come un’azione primaria di incivilimento dell’Italia da parte di genti greche, mentre trattasi solamente di un “ritorno” di arcaiche genti italiche (originariamente colonizzatrici della Grecia), all’antica madre italico-tirrenica. Raggiunta l’Italia i Pelasgi sbarcarono secondi gli autori antichi sulla costa laziale nei pressi di Ceri e da li si addentrarono nel Reatino fino a congiungersi con i loro parenti Aborigeni: l’unione delle due forze consentì di formare un poderoso esercito che ricacciò a nord i Celto-Liguri e a sud i Siculi, i quali allora occupavano il sito che sarebbe stato di Roma, sul quale si insediarono i Pelasgi. Iniziò così una nuova età per l’Italia, divisa dal fiume Tevere tra i Pelasgi al centro-sud e i proto-Etruschi (da non confondere con gli Etruschi di età storica) a nord fino alla pianura del Po, che convissero in pace per lungo tempo.

Mazzoldi sostenne quindi “che l’incivilimento non si propagò da Oriente ad Occidente, come finora si credette, ma ben piuttosto dall’Occidente ad Oriente” ad opera degli Italici e che la migrazione verso l’Italia fu semplicemente un ritorno alla terra d’origine. La terra italica arcaica, la Tirrenide, fu culla della formazione delle civiltà più antiche che si diffusero nel Mediterraneo. Con il perdersi nella storia, della memoria mitica, si perdette anche la distinta memoria dell’origine comune di diverse civiltà mediterranee, le quali, pur conservando un richiamo all’antica madre, in gran parte si svilupparono separatamente da essa.

CONFUTAZIONI ALL’OPERA DEL MAZZOLDI

Di certo, quella del Mazzoldi fu un’opera destinata a suscitare grandi entusiasmi e al contempo vivaci polemiche, in un contesto storico sicuramente non a favore di certe ipotesi, difatti in Europa nella prima metà dell’800 le teorie della Scuola Tedesca erano in piena espansione. Essa arrogava a sé il diritto di interpretare rettamente lo spirito degli antichi sulle basi di un rigoroso “metodo scientifico”, che avrebbe dovuto escludere ogni altro possibile approccio ai classici, definendo parallelamente il primato greco: la Grecia era imposta come unico vero fondamento della civiltà antica e mediterranea (visione, questa, che influenzò tutti gli sviluppi degli studi e della cultura successiva in modo determinante) subordinando ad essa tutto ciò che era Italico.

“Delle Origini Italiche” ottenne un certo successo con la prima edizione e dopo una ristampa autorizzata e alcune clandestine, l’autore pubblicò nuovamente la sua opera aggiungendo le lezioni da lui impartite alla Regia Università di Torino, in qualità di Professore Straordinario di Storia Italiana, rispondendo in parte alle obiezioni che gli erano state mosse da diversi esponenti dell’epoca. Tra questi il giornalista e uomo politico Aurelio Angelo Bianchi-Giovini, il quale dedicò due opere alla confutazione delle tesi del Mazzoldi, evidenziandone i punti più discutibili. Primo tra tutti, quello riguardante la data del cataclisma italico, posta dall’autore nell’anno 1986 avanti l’era volgare e la conseguente grande migrazione delle popolazioni italiche che diffuse la civiltà in tutto il Mediterraneo. Secondo il Bianchi-Giovini la conclusione era: desumere che prima di tale data nelle varie regioni del mondo (nelle quali gli Itali primitivi portarono la cultura) vivessero solo popolazioni allo stato selvaggio e ciò era contraddetto da alcuni dati inoppugnabili. La datazione infatti così recente, di eventi storici primordiali, risultava essere una forte incongruenza che rischiò di compromettere l’intero lavoro e che venne poi seguita da autori successivi come Camillo Ravioli e Ciro Nispi Landi. Un altro esponente che analizzò l’opera del Mazzoldi fu l’archeologo napoletano Nicola Corcia dichiarando sul giornale “Il Progresso”, con una lusinghiera premessa, la sua grande stima e ammirazione nei confronti del professore, per il suo nobilissimo intento di rischiarare l’antichissima storia d’Italia: “opera di tanta dottrina (…) e che solo un uomo dell’erudizione e della critica del Mazzoldi, e nella conoscenza delle antiche storie come lui peritissimo, possa sopra di sé prendere carico di ragionare come si conviene”. Proprio in virtù di ciò si sentì in dovere di esplicare una serrata confutazione soffermandosi su tre punti: l’uso strumentale delle fonti antiche e moderne (alcune interpretazioni risultavano a suo avviso “forzate”), l’inconsistenza del sistema cronologico, “Crediamo dunque che non è facile acquietarsi alle sentenze dell’A. e che inutile alla questione, per non dire impossibile, è assegnar l’epoca della detta inondazione, perciocché ci avvisiamo che di gran lunga trascenda i tempi delle tradizioni” e, la tendenza a storicizzare i miti antichi con estrema leggerezza, definendola un “assurdo evemerismo” [13]. La pubblicazione suscitò forti irritazioni anche negli ambienti ecclesiastici che videro messe in discussione le tesi bibliche sulla genesi dell’umanità; di conseguenza lo storico ecclesiastico Alemanno Barchi scrisse un libello per evidenziarne il contrasto con la dottrina della Chiesa che, a suo avviso, non poteva essere contraddetta neanche nei suoi dati storici [14].

Tornando alla datazione della “catastrofe italica”, bisogna dire che il Mazzoldi alla fine della sua opera  sembra contraddire la sua stessa datazione, riportando i lavori dell’astronomo e matematico francese Jean Bailly sulla formazione dei calendari e sul computo del tempo: nella sua “Histoire de l’astronomie ancienne” del 1775 il Bailly “cercate tutte le più recondite notizie astronomiche presso i vari popoli antichi, trovò di concludere che niuno dei popoli medesimi aveva un compiuto sistema astronomico proprio e che invece non conosceva se non gli avanzi d’una dottrina comune precedente. Questa dottrina era quella degli Atalanti, diffusa poscia pel mondo nella terribile catastrofe della loro patria”. Galiano, in proposito, dice che“Bailly, calcolando la data di inizio dei computi del tempo presso i diversi popoli, dagli Egiziani ai Babilonesi, dagli indiani agli Arabi, ed anche presso autori quali Diogene Laerzio e Diodoro Siculo, e convertendoli in anni avanti l’Era Volgare, giunse alla conclusione che tutti iniziavano a contare i loro anni in un periodo compreso tra il 6204 ed il 6100 a.C.. Per comprendere il valore del lavoro del Bailly si deve tenere presente da un lato che nell’Ottocento ancora resisteva la datazione basata sulla cronologia biblica e dall’altro che solo allora si faceva strada la scoperta dei fossili, la quale costringeva ad anticipare questa data, ma ciò nonostante ci si manteneva sempre entro limiti di tempo alquanto ridotti rispetto a quelli della nostra attuale paleontologia”, quindi “se Mazzoldi riteneva che l’inizio del calcolo temporale fosse stato diffuso dai Tirreno-Pelasgi implicitamente affermava che il popolo italico precedente dal quale i Tirreno-Pelasgi erano discesi era da considerare uno dei primi popoli civili esistiti sulla terra (…). Anche se Mazzoldi non lo dice esplicitamente, la data della “catastrofe italica” dovrebbe quindi essere non il 1986 a.C., come da lui asserito, ma casomai intorno al 6000 a.C., se la catastrofe fu causa della diffusione del popolo Tirreno-Pelasgico  e quindi della trasmissione del calcolo del tempo presso i popoli del Mediterraneo (…) l’anno 6000 a.C.  assegnato dal Bailly all’inizio del computo del tempo trova singolare conferma con la data in cui si sarebbero verificati gli eventi catastrofici di acqua e di fuoco secondo le più recenti ricerche geologiche e vulcanologiche!”.

Come scrive Siro Tacito in una sua nota in “Prima Tellus”, nel lavoro del Mazzoldi – come in quello degli altri autori che lo precedettero e lo seguirono – “potranno esservi delle imprecisioni, delle ingenuità, ma c’è un nucleo, un nocciolo profondamente vero e plausibile”. In queste opere, c’è qualcosa di valido e meritevole di essere preso in considerazione che andrebbe ulteriormente indagato e verificato affinché una grande tradizione letteraria non vada dimenticata o perduta. Terminiamo con le parole dello studioso Giorgio Copiz, il quale dice:  “l’importante è porsi davanti al problema dando un contributo (…) pro o contro a tale ipotesi, per ridefinire con un accettabile margine di verosimiglianza, ma senza escludere alcun indizio o testimonianza non ancora sufficientemente indagati, la storia dell’Italia dalla fine dell’ultima glaciazione fino all’affermazione dell’età romana”.

Note:

[1] Roma, la Roma Quadrata di Romolo, è considerata da diversi studiosi come l’ultima delle “Quattro Rome”, le quali si sovrapposero l’una all’altra lasciando ciascuna alla successiva il ricordo dell’età precedente. Quelle precedenti ad essa, sarebbero state fondate in tempi ben più remoti: la Prima Roma, la Metropoli dello studioso Camillo Ravioli, sarebbe collocabile ai tempi della Tirrenide ovvero l’antica penisola Italica; la Seconda Roma, la Saturnia edificata da Saturno, ai tempi successivi la Catastrofe Italica; la Terza Roma, sarebbe identificabile con la Pallanteo di Evandro.

[2] Nel ‘700: Gianbattista Vico, Anton Francesco Gori, Mario Guarnacci, Luigi Lanzi, Vincenzo Cuoco; ’800: Giuseppe Micali, Angelo Mazzoldi, Camillo Ravioli, Ignazio Ciampi, Giovanni Ettore Mengozzi, Ciro Nispi Landi; ‘900:  Evelino Leonardi, Guido Di Nardo, Giuseppe Brex, Costantino Cattoi, Enea Lanari; ma possiamo ritrovare ancora prima, tracce di questa ricerca culturale con Annio da Viterbo che nel ‘500 parlava di una “Prisca Sapienza” dei primi popoli Italici.

[3] Si intendono centri esoterici più o meno individuabili e società segrete (a cui sembra prendessero parte personaggi illustri del tempo) che operarono da “dietro le quinte” tra il XVIII e il XX secolo, affinché circolassero informazioni riservate presso gli studiosi in questione, riguardo un’antica Tradizione Sapienziale Italica e Romana.

[4] Nato a Montichiari, nel 1802, fu professore straordinario di Storia Italiana all’Università di Torino, giureconsulto e uomo politico, socio dell’Ateneo di Brescia. Assertore della causa nazionale, prese le armi contro gli Austriaci nella guerra del 1848, ricoprendo  la carica di segretario del Comitato di guerra. Rappresentò il collegio di Montichiari di Brescia alla Camera dei deputati di Torino. Morì nel suo paese natale nel 1864.

[5] Alcuni autori considerano Camese nome femminile e identificano il personaggio con la sorella o la sposa di Giano, la quale avrebbe regnato insieme a lui sul Lazio.

[6] In alcuni passi della sua opera il Mazzoldi affermò esplicitamente che l’antica terra Italica era da identificare con l’Atlantide platonica, finendo in questo caso per operare erroneamente una trasposizione dell’isola mitica ad una delle sue possibili dislocazioni secondarie.

[7] Le testimonianze citate dal Mazzoldi a riguardo furono in particolare quelle di Diodoro Siculo (Libro V) e di Virgilio (Eneide, libro III).

[8] Mazzoldi pose questa data basandosi sulla figura di Inaco, considerato da lui un italico: “I Greci pongono le prime origini della loro civiltà ai tempi d’Inaco padre di Foroneo, un Oceanita, il primo che dai costumi ferini e bestiali, gli allettò alle istituzioni della vita civile; ai tempi di quest’Inaco è da essi segnata una grande innondazione dei paesi littorani di Grecia, conosciuta sotto il nome di diluvio di Ogige”; l’autore affermò di aver ritrovato similitudini di tale evento nelletradizioni di altri popoli del Mediterraneo: “Colla scorta di queste indicazioni che toccano non meno la causa che gli effetti della grande migrazione atalantica o italiana, non è difficile l’assegnarle un tempo. Perché avendo Inaco, come vedremo, in Argo istituita una società civile, ch’ebbe in lui un capo o un re, ed inseguito ne’ suoi figlioli o nipoti una discendenza continuata fino ai tempi storici, la cronologia potè dalle generazioni dedurre il progresso dei tempi. Inaco è posto nella cronologia greca rettificata dai Padri Maurini, all’anno innanzi Gesù Cristo 1986”.

[9] Paolo Galiano scrive in proposito: “Queste eruzioni distruttive ed i terremoti che ne conseguirono sarebbero stati ricordati nelle storie degli antichi nel mito della guerra tra Giove “il giovane” e Saturno con la sua stirpe di Titani: anche se molti autori a partire da Mazzoldi e dal Ravioli, furono fin troppo evemeristici nella ricostruzione di questa guerra come di tutto il mito della Terra di Saturno, quanto riportato nelle “favole” dei latini e dei greci sembra coincidere in modo molto preciso con tali lontanissimi eventi”.

[10] Mazzoldi, nella sua opera, pur prediligendo gli sconvolgimenti dovuti all’acqua e al fuoco, non tralasciò di considerare l’ipotesi di un evento astronomico, come il passaggio, molto vicino alla Terra, di una cometa.

[11] riportato da Lucio Manlio e trascritto da Dionigi d’Alicarnasso (Rom Ant I, 19, 3).

[12] in nota il Mazzoldi scrisse: “E’ da avvertirsi che alcuni leggono Manlio”.

[13] Mazzoldi non si difese minimamente da tale accusa ma al contrario fece una dichiarazione di fede nei confronti delle dottrine del filosofo Evemero.

[14] Al Barchi rispose G. L. Gherardi che difese l’opera del Mazzoldi rivendicandone la validità delle teorie.

Bibliografia:

“Delle Origini Italiche e della diffusione dell’incivilimento italiano all’Egitto, alla Fenicia, alla Grecia, e a tutte le nazioni asiatiche poste sul Mediterraneo” di Angelo Mazzoldi, Edizione Victrix, Forlì 2006

“Roma Prima di Roma – Metastoria della tradizione italica” di Paolo Galiano, Edizione Simmetria, Roma 2011

“Prima Tellus – Sulle tracce dell’Italia Primigenia” a cura di Siro Tacito, Edizione I libri del Graal, Roma 1998

“Roma Renovata Resurgat” di Fabrizio Giorgio, Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2011

“Dagli Appennini all’Atlantide” di Annalisa e Giorgio Copiz, Editoriale Bellator

“Antiche popolazioni italiche” di Giorgio Copiz e Gianluigi Proia, Archeomitika

“Quaderni della Società Geologica Italiana” N° 2, Ottobre 2007

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